I buuuu razzisti allo stadio mietono le prime vittime. I latini dicevano che il veleno sta nella coda. Quello scaturito nel finale di Juventus-Inter, semifinale d’andata di Coppa Italia, odora di storia per la sentenza del giudice sportivo con tanto di squalifica della curva bianconera per gli ululati razzisti nei confronti dell’interista Lukaku. La dirigenza juventina ha collaborato con gli 007 federali e così oltre a individuare i due responsabili dei gesti razzisti ha provveduto ad allontanarli chi vitanaturaldurante chi, il minorenne, a 10 anni. Certo, si castiga un intero settore per due responsabili.
Al netto di una ferma condanna nei confronti di chi si macchia di un reato così antinaturale e antiumano come gesti e parole razziste, è giusto punire una persona con una condanna a vita? Non stiamo parlando del più abietto dei reati (tipo l’omicidio), ma di un gesto circostanziato, fomentato da uno sport che da sempre stimola istinti bassi, che a un’azione genera una controreazione attraverso una catena infinita, che spesso però non trova una recrudescenza quando si torna fuori dallo stadio. Certo, in questo caso ha trionfato il pensiero maoista, a caldo, colpendone uno per educarne cento.
Vecchio dilemma, questo: si punisce per recuperare socialmente (e ancor prima individualmente) o per isolare (quindi uccidere lentamente)? Banalmente, potremmo dire che il tifoso macchiatosi dei buu razzisti e che è stato allontanato a vita dalla Juventus (ah, non potrà seguire nemmeno la Primavera, la Femminile e la Next Generation) potrà vedere le partite della sua squadra del cuore sul divano di casa, insultando chiunque, o nel pub, insultando un po’ meno.
La punizione però ha un suo grande valore quando ha un fine nobile: se al tifoso daspato per tutta la vita gli fosse invece offerto un (lungo) periodo di attività sociali per scontare il suo reato, magari da svolgere verso coloro che hanno da lui diversa la pelle, l’orientamento sessuale, il culto religioso e il pensiero? Perché non concedere un’altra possibilità a chi ha sbagliato? E, riuscendo nell’intento, utilizzare quel tifoso redento in un testimonial contro il razzismo? Così, magari riusciremmo a colpirne uno per educarne davvero cento.
Gian Luca Campagna (giornalista e scrittore)